«Non mi avete mai lasciato solo». Adone racconta la sua fuga

Ci riceve in giardino, sotto il fico dove adesso gli piace sonnecchiare. Ha lo sguardo fiero e un po’ stanco, la zampa ancora fasciata, e quell’aria da sopravvissuto che si concede al racconto solo quando ha capito di essere finalmente al sicuro. Prima di iniziare ci guarda serio, poi abbassa il muso sul microfono, lo annusa per bene e fa un mezzo sbuffo.
«Va bene, parliamo. Ma niente video. E soprattutto: niente TikTok, non so nemmeno cosa sia.»
E così comincia.
Adone, cosa ricordi di quella sera in via Magenta?
Un rumore fortissimo, poi le luci, il dolore. E subito dopo, la paura. Non quella che ti fa abbaiare, quella che ti fa correre senza fiato, come se il cuore potesse esplodere da un momento all’altro. Ho corso e basta. Mi ricordo il rumore delle mie unghie sull’asfalto e il pensiero fisso: sparisci.
Hai vagato per quindici giorni. Dove sei stato?
Eh… dappertutto. Ho fatto base in un vecchio giardino dismesso che puzzava di ruggine, ma almeno era asciutto. Di giorno dormivo raggomitolato sotto un bancale marcio, la notte mi muovevo piano, come un’ombra. Una volta sono passato davanti al cancello di una villetta dove avevano lasciato una ciotola piena. Non so chi fosse, ma se leggete questo articolo: grazie. Mi avete dato la forza per un altro giorno.
Hai fatto qualche incontro interessante durante la fuga?
Un paio, sì. C’era un gatto rossiccio che si faceva chiamare Romeo – non ho mai capito se era un nome vero o un soprannome da strada. All’inizio mi soffiava contro, poi si è ammorbidito. Dormivamo a pochi metri di distanza, ma facevamo finta di ignorarci. Sai com’è: tra randagi si rispetta il silenzio.
Di notte avevi paura?
Sempre. I rumori sembrano più grossi, più cattivi. Ogni foglia secca che si muoveva mi faceva saltare il cuore. Una volta ho sognato Luca. Era una di quelle notti fredde e senza luna, e l’ho sognato che mi chiamava. Mi sono svegliato e ho pianto in silenzio. Da soli, si piange in silenzio.
Ti cercavano in tanti. Hai sentito tutto questo affetto?
Sì. Era come un’energia nell’aria. Gente che passava più volte al giorno, che chiamava piano, che lasciava cose buone nei punti giusti. Una signora mi ha persino lasciato un panino con il prosciutto in una busta di carta, Romeo ci ha provato, ma gliel’ho soffiato sotto il naso. Con rispetto, ovviamente.
Quando ti hanno trovato, cos’hai provato?
Sollievo. Non fisico, qualcosa di più profondo. Ero nascosto tra i rovi, sentivo una voce conosciuta, poi ho sentito “è lui”. E lì ho capito: basta. Ho smesso di difendermi, ho lasciato che mi vedessero. Luca mi ha guardato come solo chi ti ama sa guardarti. Non mi ha detto “perché sei scappato?” Mi ha detto “sei tornato”. E mi ha stretto.
Ora sei una piccola celebrità a Como. Come la vivi?
Male. La gente mi ferma per strada e mi chiede: “possiamo fare un selfie?”. E io: “cosa vuol dire selfie?”. Una volta uno mi ha messo un filtro con le orecchie da coniglio. Per carità. Io sono un cane serio. Ho la mia dignità.
Come stai adesso?
Meglio. Sto ingrassando, ma dicono che me lo merito. Dormo su un cuscino che profuma di casa. Ogni tanto sogno ancora la strada, ma poi sento Luca russare e mi passa. Ho scoperto che il divano è più comodo di qualsiasi tana. E il frigorifero è una fonte inesauribile di sorprese.
Cosa vuoi dire a Como?
Grazie. Lo dico col cuore, col muso e con la coda. Non mi avete mai lasciato solo. Vi sentivo. Ogni passo, ogni volantino, ogni messaggio. Quando sei ferito e hai paura, sentire che qualcuno ti sta cercando fa tutta la differenza del mondo. Mi avete tenuto vivo. Non lo dimentico.
Un grazie che non ha bisogno di traduzioni va a Luca e alla sua famiglia, che non hanno mai smesso di cercarlo. Neanche un giorno. A chi ha stampato e appeso centinaia di volantini. A chi ha fatto ricerche notte e giorno. A chi ha lasciato cibo e acqua, a chi ha incrociato Adone ma non è riuscito a prenderlo, e anche a chi ci ha provato senza clamore.
Grazie ai volontari, ai gruppi animalisti, a chi ha seguito ogni pista senza mollare mai. E grazie a chi l’ha visto tra i rovi e ha avuto il cuore – e il sangue freddo – di fermarsi e chiamare.
Adone è tornato. E con lui, anche per un attimo, è tornata quella cosa che ci manca sempre di più: sentirci parte di qualcosa.
Una comunità. Una città. Un legame che, quando serve, sa ancora stringersi attorno a chi ha bisogno. Anche se ha quattro zampe e il muso impolverato.
E se ci fermiamo un attimo, forse possiamo sentirlo anche noi, come quella notte, tra i rovi, quando tutto sembrava perduto e invece… qualcuno stava arrivando.